Errata Identificazione Del Paziente E Risarcimento Danni

L’errata identificazione del paziente è una delle cause più gravi e paradossali di eventi avversi in ambito sanitario. Può verificarsi in qualsiasi fase dell’assistenza – dal triage all’intervento chirurgico, dalla somministrazione di farmaci alla consegna di referti – e può generare conseguenze devastanti, come diagnosi sbagliate, trattamenti non necessari, errori chirurgici o mancata erogazione della terapia corretta.

La sicurezza dell’identificazione del paziente è uno dei sei obiettivi prioritari dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e del Ministero della Salute italiano. Nonostante ciò, ogni anno in Italia si verificano centinaia di casi documentati di scambio di cartelle cliniche, attribuzione errata di referti, somministrazione di farmaci al paziente sbagliato o errori di identificazione al momento dell’intervento chirurgico.

L’errore di identificazione è quasi sempre prevenibile con semplici protocolli: verifica multipla dei dati anagrafici, braccialetto identificativo, consenso informato personalizzato, doppio controllo al momento della somministrazione. Quando questi controlli mancano o non vengono rispettati, si configura una responsabilità medica.

In questo articolo vedremo le cause più comuni dell’errata identificazione del paziente, i danni conseguenti, le normative aggiornate al 2025, i casi concreti risarciti in Italia e le competenze degli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.

Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.

In quali contesti si verificano più spesso errori di identificazione?

  • In pronto soccorso, al momento del triage o del ricovero;
  • Durante la somministrazione di farmaci, trasfusioni o terapie oncologiche;
  • In sala operatoria, al momento del posizionamento e della checklist pre-intervento;
  • Nella consegna di referti, esami radiologici o documentazione clinica;
  • Durante il trasporto del paziente tra reparti o in sala diagnostica;
  • Nella gestione delle cartelle cliniche in forma cartacea o digitale.

Quali sono le cause più frequenti dell’errata identificazione del paziente?

Nel cuore della pratica sanitaria, dove ogni gesto dovrebbe essere guidato da sicurezza, precisione e responsabilità, esiste un errore tanto semplice quanto devastante: l’identificazione sbagliata del paziente. Sembra impossibile, nell’era dei braccialetti elettronici, delle cartelle digitali, delle firme biometriche, che qualcuno possa ricevere una terapia non destinata a lui, un prelievo non richiesto, un intervento chirurgico per errore. Eppure succede. Più spesso di quanto si pensi. Perché la sicurezza del paziente non è solo una questione di tecnologia, ma di cultura, di attenzione, di processi condivisi.

Una delle cause principali è la routine, che porta a dare per scontato ciò che dovrebbe invece essere verificato ogni volta. Il paziente è lo stesso di ieri, lo conosciamo, “non serve controllare”. Si prende il modulo dal fondo del letto, si guarda la cartella, si passa al letto successivo. Ma nei reparti con molti pazienti, nelle degenze condivise, nei cambi turno, basta pochissimo per confondere una stanza, un nome, un trattamento. Il paziente può essere stato spostato, può avere lo stesso cognome di un altro ricoverato, può non essere in grado di confermare l’identità. E così, la sicurezza viene sostituita dalla consuetudine. E l’errore si compie nel silenzio.

Un altro errore ricorrente è la fiducia eccessiva nelle informazioni verbali. Un infermiere chiede “lei è il signor Rossi?”, e il paziente – magari anziano, confuso o ipoudente – risponde “sì” per riflesso o per non contraddire. Nessuno chiede un documento, nessuno verifica il braccialetto, nessuno confronta il codice identificativo. In pronto soccorso o nei day hospital, dove i tempi sono rapidi e le pressioni elevate, si tende a procedere con la terapia o l’esame sulla base di una conferma sommaria. Ma una domanda non è un’identificazione. E un “sì” non è una garanzia.

Molti ospedali non hanno sistemi digitali di identificazione standardizzati per tutte le fasi assistenziali. Esistono ancora reparti dove i pazienti non portano braccialetti identificativi, o dove questi vengono rimossi per comodità, o dove i foglietti appesi al letto sono l’unica fonte di conferma. In caso di trasporto, cambio stanza, trasferimento temporaneo, questi dati si perdono o si confondono. Se il personale non ha un protocollo rigido da seguire, il margine d’errore aumenta. E basta che due pazienti abbiano lo stesso nome, o una diagnosi simile, o siano nella stessa stanza, perché si somministri un farmaco al paziente sbagliato.

Il problema si aggrava quando il paziente è incosciente, intubato, sedato, o non in grado di parlare. In questi casi, l’identificazione deve avvenire attraverso braccialetti, cartella clinica, schede informatizzate, ma anche attraverso il confronto incrociato tra operatori. Tuttavia, nei momenti di urgenza, nei turni notturni, nelle situazioni ad alta pressione, questa procedura si accorcia, si semplifica, si salta. Un prelievo ematico viene fatto al letto sbagliato, una sacca di sangue viene attaccata senza il doppio controllo, un referto di laboratorio viene associato al paziente errato. E quando l’errore emerge, spesso ha già prodotto un danno.

Anche nei percorsi chirurgici, l’identificazione errata può avere conseguenze gravissime. Interventi eseguiti sull’arto sbagliato, pazienti portati in sala senza verifica, errori nelle etichette dei campioni istologici. Tutto questo accade. E non per mancanza di tecnologia, ma per mancanza di applicazione rigorosa dei protocolli. La checklist pre-operatoria, prevista dalle linee guida internazionali, viene talvolta eseguita in modo formale, frettoloso, senza reale verifica. Si finge di controllare, si spunta una casella, ma non si guarda davvero. E quando si incide sul corpo sbagliato, non basta più dire che c’era una firma sul modulo.

Un altro contesto a rischio è quello dei laboratori analisi. Prelievi, campioni, provette, contenitori per esami microbiologici o istologici: se l’etichettatura non avviene in presenza del paziente e con verifica incrociata, il margine d’errore è altissimo. Campioni confusi, risultati attribuiti alla persona sbagliata, diagnosi errate. Una glicemia di 400 attribuita a un paziente normoglicemico, un risultato sierologico positivo comunicato al paziente sbagliato, un referto istologico maligno assegnato a chi non ha alcun tumore. Gli errori nella catena identificativa sono tra i più gravi perché si moltiplicano nel tempo: da un errore iniziale nascono altri errori, diagnosi, terapie.

Il passaggio di consegne tra turni è un altro punto critico. Se le informazioni vengono trasmesse solo verbalmente, senza controlli, senza consultare le schede, senza ricontrollare l’identità, si crea una catena informativa fragile. Il paziente “con la colite” diventa quello “con la pancreatite”, quello “con l’infezione delle vie urinarie” diventa il “diabetico con febbre”. E quando si somministra una terapia, si fa un esame invasivo, si prende una decisione clinica, ci si basa su un’identità sbagliata. Ma un paziente è una persona, non una diagnosi verbale tramandata. E ogni errore di identificazione nasce da una storia raccontata senza conferme.

La presenza di barriere linguistiche o culturali può contribuire all’errore. Pazienti che non comprendono l’italiano, o che parlano male, o che provengono da contesti dove si tende a non contraddire l’autorità, rischiano di non correggere l’operatore quando viene attribuito loro un nome sbagliato. Un paziente straniero a cui si chiede: “lei è Mohamed Hassan?”, può annuire per convenzione, per timidezza, per non creare disagio. E in quel momento si apre la porta all’errore. L’identificazione non deve dipendere dalla parola, ma da codici, date di nascita, sistemi incrociati, e se possibile da doppia verifica. Ogni sistema che si affida solo al linguaggio umano è un sistema vulnerabile.

Dal punto di vista medico-legale, l’errata identificazione del paziente è considerata una colpa grave, spesso inescusabile. Perché esistono protocolli, sistemi, strumenti che la rendono evitabile. Non serve la prova del dolo: basta dimostrare che non sono state seguite le procedure previste. Se un paziente ha ricevuto una trasfusione sbagliata, un farmaco non prescritto, un intervento non necessario, o se il suo referto è stato consegnato a un altro, la responsabilità dell’operatore e della struttura è pressoché automatica.

In conclusione, identificare il paziente è il primo atto di ogni cura. Ed è anche il più importante. Nessun farmaco, nessun esame, nessuna diagnosi ha valore se non è associato alla persona giusta. L’identificazione non è una formalità, ma un fondamento. Deve essere attiva, doppia, incrociata, quotidiana. Deve essere protetta da sistemi informatici, ma anche da buone pratiche umane. Perché ogni errore di identità non è solo un problema clinico: è una ferita alla fiducia che il paziente ripone nella medicina. E quando si cura il corpo sbagliato, si colpisce anche quello giusto.

Quando si configura la responsabilità medica per errata identificazione del paziente?

L’identificazione corretta del paziente rappresenta il primo e fondamentale passo per la sicurezza in ambito sanitario. È il presupposto di ogni atto diagnostico, terapeutico o assistenziale, e la sua mancanza può generare una catena di errori potenzialmente devastanti. Quando un paziente viene scambiato per un altro, o identificato in modo incompleto o scorretto, e ciò comporta l’esecuzione di procedure, somministrazione di farmaci, trasfusioni, interventi o decisioni cliniche errate, si configura una responsabilità medica e organizzativa grave e non giustificabile.

L’errore può avvenire in diversi contesti: al momento del triage in pronto soccorso, durante il trasferimento tra reparti, in sala operatoria, in laboratorio, nei reparti di degenza, oppure in ambulatorio. Spesso nasce da un’apparente banalità: un braccialetto mancante o con dati illeggibili, una cartella confusa, un nome simile, una scheda scambiata, un paziente non in grado di riferire le proprie generalità. Tuttavia, anche quando l’errore appare piccolo, le sue conseguenze possono essere enormi.

I danni più frequenti sono di tipo terapeutico: somministrazione del farmaco al paziente sbagliato, trasfusione incompatibile, intervento chirurgico eseguito su persona non indicata, rimozione di un drenaggio o di un presidio senza indicazione, sospensione di terapie salvavita, mancata esecuzione di un esame urgente. A questi si aggiungono errori documentali che possono compromettere il decorso clinico: diagnosi attribuite al soggetto errato, dimissioni premature, firme su consensi informati non validi, attribuzione di allergie inesistenti o mancato riconoscimento di allergie note.

La responsabilità si configura ogniqualvolta non vengano rispettate le procedure di identificazione previste dalla struttura. Le linee guida nazionali e internazionali richiedono l’uso di almeno due identificatori del paziente (nome e data di nascita, codice fiscale o codice identificativo), il controllo incrociato di documenti, braccialetti, cartelle e schede, e la conferma verbale dell’identità da parte del paziente ove possibile. Omettere questi passaggi, o delegare l’identificazione a procedure informali, è una colpa organizzativa e personale.

Particolarmente gravi sono gli errori che avvengono in sala operatoria o in fase preoperatoria. Il cosiddetto “wrong patient surgery” è una delle evenienze più temute in chirurgia: operare il paziente sbagliato, o su lato errato, è un evento sentinella in ogni sistema sanitario. Anche se raramente causa morte, si tratta di un errore intollerabile sul piano etico, deontologico e legale. I protocolli internazionali, come il “Time Out” della WHO Surgical Safety Checklist, impongono il controllo multiplo e condiviso dell’identità, del sito chirurgico, della procedura e del consenso informato. Se questo non avviene, e l’errore si verifica, la responsabilità è totale.

La responsabilità coinvolge non solo il singolo sanitario, ma l’intera équipe e la struttura. In molti casi, l’errore è sistemico: scarsa cultura della sicurezza, assenza di formazione, carenza di procedure scritte, disorganizzazione nei turni o nei trasferimenti. Anche gli strumenti elettronici non sono sempre efficaci se non integrati con il comportamento umano. Un sistema informatizzato che consente di stampare cartellini identici per pazienti diversi, o che non blocca operazioni su pazienti non confermati, è un sistema vulnerabile.

La documentazione clinica diventa cruciale per identificare e correggere gli errori, ma anche per attribuire responsabilità. Se una trasfusione è stata somministrata a un paziente con gruppo sanguigno diverso, sarà necessario dimostrare chi ha preparato la sacca, chi l’ha somministrata, chi ha verificato l’identità. In caso di errore farmacologico, si analizzeranno le firme sulle schede di terapia, le registrazioni dei passaggi di consegna, le note di somministrazione. Se l’errore è stato scoperto tardivamente, si valuterà anche la prontezza con cui è stato segnalato e corretto.

Anche i pazienti non collaboranti sono soggetti ad alto rischio. Anziani con demenza, pazienti con alterazioni dello stato mentale, minori, persone intubate, stranieri senza documenti, detenuti o soggetti non coscienti, richiedono misure rafforzate di identificazione. In questi casi, affidarsi alla parola del paziente o a segni empirici (come la stanza occupata o la posizione nel letto) è inaccettabile. Servono strumenti oggettivi: braccialetti, fotografie identificative, codici, conferme da più fonti. L’errore, in questi contesti, non è meno grave: è semplicemente più prevedibile.

La giurisprudenza ha condannato più volte strutture sanitarie per errata identificazione del paziente. In particolare, si segnalano sentenze relative a trasfusioni incompatibili, interventi eseguiti su persona errata, dimissioni di pazienti con cartelle cliniche altrui, comunicazione di diagnosi sbagliate, e decessi causati da farmaci destinati ad altri soggetti. Il principio è chiaro: il paziente ha diritto ad essere riconosciuto come individuo unico e irripetibile. Ogni errore in tal senso è violazione della sua identità e integrità.

Il consenso informato, se firmato dal paziente sbagliato o relativo a un intervento diverso, è nullo. Ogni procedura effettuata in assenza di consenso valido è da considerarsi lesione della libertà personale. Se poi l’intervento causa un danno, la responsabilità diventa aggravata. Anche il consenso verbale, per essere valido, deve presupporre l’identificazione certa del paziente. In caso contrario, l’atto medico può trasformarsi in un reato.

Prevenire l’errata identificazione richiede cultura della sicurezza, formazione continua, protocolli rigidi e strumenti tecnologici adeguati. Ma richiede soprattutto attenzione, consapevolezza e senso di responsabilità. Ogni operatore deve chiedersi, prima di agire: “Sono certo che questo è il paziente giusto, nel momento giusto, per la procedura giusta?” La fretta, la stanchezza, la routine non sono scuse accettabili. Perché l’identità del paziente non è un dettaglio: è il fondamento di ogni atto medico.

In conclusione, la responsabilità medica per errata identificazione del paziente si configura ogniqualvolta un soggetto riceva cure, trattamenti, diagnosi o comunicazioni cliniche destinati ad altri, a causa di un errore evitabile nel processo di riconoscimento. È una colpa che può nascere da una distrazione o da un sistema disorganizzato, ma le sue conseguenze possono essere gravi, irreversibili e traumatiche.

Ogni paziente ha un nome, una storia, un corpo unico. Ogni errore che lo scambia per un altro è una ferita non solo fisica, ma personale. Ogni braccialetto sbagliato è un fallimento della medicina. Perché curare è un gesto di precisione, e riconoscere chi si ha davanti è il primo e più sacro dovere di ogni medico.

Quali leggi regolano la materia?

  • Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017) sulla sicurezza delle cure e la responsabilità sanitaria;
  • Art. 2043 c.c., per danno da fatto illecito;
  • Art. 2236 c.c., per colpa tecnica in ambito sanitario;
  • Art. 590 e 589 c.p., lesioni personali colpose e omicidio colposo;
  • Linee guida nazionali per la sicurezza del paziente (Ministero della Salute, aggiornamento 2025).

Quali risarcimenti sono stati riconosciuti?

  • Paziente operato al rene destro invece che al sinistro: risarcimento di 2.500.000 euro;
  • Uomo sottoposto a trasfusione incompatibile per errore di identificazione: risarcimento di 2.100.000 euro;
  • Anziana ricoverata con terapia oncologica destinata a un’altra paziente: risarcimento di 1.850.000 euro.

A chi rivolgersi per ottenere giustizia?

In caso di danno derivante da errata identificazione del paziente, è necessario rivolgersi a avvocati con competenze specifiche in responsabilità clinico-organizzativa e gestione del rischio sanitario. La tutela prevede:

  • Verifica della catena di identificazione e tracciabilità dell’errore;
  • Analisi della documentazione clinica e informatica;
  • Collaborazione con medici legali, esperti in gestione del rischio clinico e sicurezza del paziente;
  • Dimostrazione del nesso causale tra errore d’identità e danno subito;
  • Azione risarcitoria completa in sede civile e, se necessario, penale.

Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità lavorano con esperti in qualità sanitaria, risk management e diritto della responsabilità medica, offrendo una tutela precisa, documentata e fondata sui più aggiornati standard nazionali e internazionali in materia di sicurezza del paziente.

Identificare correttamente il paziente è il primo atto di cura. Quando questo fallisce, il danno non è mai casuale: è responsabilità. E la legge tutela chi subisce le conseguenze di un errore così grave.

Qui di seguito tutti i riferimenti del nostro Studio Legale specializzato in risarcimento danni da errori medici:

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