Mancata Gestione Del Rischio Suicidario In Pazienti Con Sintomi Depressivi Acuti E Risarcimento Danni

La depressione acuta è una condizione psichiatrica potenzialmente letale. Quando si manifesta con ideazione suicidaria, disperazione intensa, isolamento, ansia grave e disturbi del sonno, deve essere trattata come un’emergenza sanitaria. Il paziente affetto da sintomi depressivi acuti ha bisogno di un monitoraggio continuo, valutazione specialistica tempestiva e, nei casi a rischio, ricovero protetto.

La mancata gestione del rischio suicidario è una delle omissioni più gravi in ambito psichiatrico e medico generale. Non identificare i segnali d’allarme, non attivare le procedure di protezione, non somministrare le cure urgenti può portare al suicidio o a tentativi con gravi esiti fisici e psicologici. Quando ciò accade, la responsabilità ricade sulla struttura sanitaria o sul medico, e il paziente – o i familiari – hanno diritto al risarcimento dei danni subiti.

Il principio cardine è la prevenibilità dell’evento suicidario in contesto sanitario: se il paziente era conosciuto per la sua condizione psichiatrica, se manifestava segnali chiari o se era già seguito da servizi di salute mentale, la sua protezione doveva essere garantita.

In questo articolo analizzeremo le cause della mancata gestione del rischio suicidario, i doveri degli operatori sanitari, le normative aggiornate al 2025, i casi concreti risarciti e le competenze degli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità, con focus sulle responsabilità nelle strutture sanitarie e nei pronto soccorso.

Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.

Quali sono i segnali clinici che indicano un rischio suicidario?

  • Frasi dirette o velate sulla volontà di morire;
  • Tentativi autolesivi o precedenti gesti suicidari;
  • Ritiro sociale improvviso e perdita di interesse;
  • Ansia severa, insonnia e agitazione notturna;
  • Perdita di peso marcata e incapacità di provare piacere;
  • Richiesta esplicita di aiuto o pensieri ricorrenti di morte.

Quali sono le cause più frequenti della mancata gestione del rischio suicidario in pazienti con sintomi depressivi acuti?

In ogni reparto, in ogni ambulatorio, in ogni pronto soccorso, ogni giorno, arrivano pazienti che portano dentro ferite invisibili. Persone che non urlano, non sanguinano, non si lamentano, ma che stanno soffrendo in modo tanto profondo da non volersi più svegliare. Dietro uno sguardo spento, una voce fioca, una frase detta con leggerezza, si può nascondere l’idea concreta di farla finita. Eppure, anche oggi, la sanità perde l’occasione di riconoscere questi segnali. La mancata gestione del rischio suicidario nei pazienti con sintomi depressivi acuti non è solo un errore clinico: è una voragine nel cuore dell’assistenza.

Uno dei motivi più frequenti è la sottovalutazione della depressione come urgenza medica. Nella scala delle priorità ospedaliere, i sintomi psichici vengono spesso considerati secondari, di contorno, meno gravi rispetto alle urgenze somatiche. Un paziente che arriva con dolore toracico viene subito monitorato, uno che parla di stanchezza e insonnia viene rimandato al medico di base. Anche quando ammette di sentirsi inutile, di avere pensieri negativi, di desiderare che tutto finisca, raramente scatta una valutazione strutturata. Spesso si liquida tutto con un “torni domani dallo psichiatra”. Ma il suicidio non aspetta un appuntamento.

Molti professionisti non sono formati per valutare in modo efficace il rischio suicidario. L’anamnesi psichica viene fatta in modo superficiale, senza strumenti validati, senza domande dirette, senza tempo. Si teme che parlare di suicidio possa istigare il paziente, aggravare la sua condizione, creare un disagio relazionale. Invece, è l’esatto contrario: fare le domande giuste salva la vita. “Ha mai pensato di farla finita?”, “Ha un piano?”, “Ha già tentato?”, “Ha accesso a mezzi per farlo?”, “Cosa la sta trattenendo?”. Queste domande dovrebbero essere parte integrante della valutazione clinica. E invece vengono evitate, omesse, sostituite da formule vaghe. Il risultato è che il rischio resta sommerso, invisibile, pericolosamente reale.

Un altro errore diffuso è l’eccessiva fiducia nell’apparente lucidità del paziente. Molti soggetti con ideazione suicidaria acuta riescono a mascherare le proprie intenzioni. Si presentano calmi, parlano con distacco, rassicurano il medico dicendo “sto meglio”, “non ci penso più”, “mi è passato”. Ma spesso queste frasi non sono segno di miglioramento, bensì di rassegnazione, di chiusura emotiva, di avvicinamento a un’idea definitiva. Il rischio maggiore, paradossalmente, può manifestarsi quando la fase depressiva è più “tranquilla”, quando la decisione è stata presa e il paziente non sta più lottando. Se il professionista si ferma all’impressione superficiale, se non scava, se non conosce i segnali clinici specifici, rischia di dimettere una persona che sta già dicendo addio.

La discontinuità dell’assistenza è un altro nodo critico. Il paziente con depressione acuta spesso passa da un medico all’altro, da un servizio all’altro, senza che nessuno si prenda davvero carico del suo rischio. Viene visitato in Pronto Soccorso, poi in medicina generale, poi dallo psichiatra, poi dallo psicologo, poi di nuovo in guardia medica. Ogni professionista raccoglie un pezzo della storia, ma nessuno ha il quadro completo. E se non c’è una cartella condivisa, una comunicazione strutturata, un piano terapeutico unico, ogni incontro diventa un’occasione mancata. Il rischio suicidario non può essere gestito a episodi. Deve essere seguito, monitorato, condiviso, accompagnato.

Molte strutture sanitarie non dispongono di percorsi chiari per la gestione del rischio suicidario. Non ci sono protocolli standardizzati, non esistono spazi dedicati, non ci sono numeri d’emergenza psichiatrica realmente attivi H24. Il paziente con pensieri suicidari viene valutato in Pronto Soccorso da medici non specializzati, in ambienti caotici, senza privacy, senza tempo. In alcuni casi, viene lasciato solo in una sala d’attesa, in altri viene dimesso con un appuntamento a distanza di giorni. Anche nei reparti psichiatrici, in condizioni di sovraffollamento e con poco personale, si può perdere la capacità di intercettare il momento critico. Il sistema non è pensato per proteggere davvero chi sta pensando di farla finita.

Un’altra causa è la mancanza di ascolto autentico e profondo. Il paziente depresso non sempre dice esplicitamente di voler morire. Ma lo lascia intuire. Con parole, sguardi, silenzi, gesti. Una rinuncia alle terapie, un rifiuto del cibo, una frase scritta in un appunto, una telefonata fatta nel cuore della notte, una richiesta d’aiuto camuffata da lamento. Solo chi ascolta con attenzione può cogliere questi segnali. Ma quando il tempo è poco, quando si cercano sintomi oggettivi, quando si guarda lo schermo e non il volto, questi segnali sfuggono. E il paziente resta solo con i propri pensieri.

La famiglia, spesso, non viene coinvolta. O viene coinvolta in modo frettoloso, formale, senza un vero patto di corresponsabilità. Eppure sono proprio i familiari, i conviventi, gli amici a poter salvare una vita nelle ore più buie. Ma nessuno dice loro cosa osservare, quando preoccuparsi, come intervenire, chi chiamare. Non vengono allertati sulle fasi critiche, sui peggioramenti improvvisi, sulle possibili oscillazioni tra miglioramento apparente e rischio acuto. Se nessuno li informa, non possono aiutare. E se non sono presenti, il paziente viene dimesso nel vuoto. E nel vuoto, il suicidio trova spazio.

Il pregiudizio gioca un ruolo subdolo. Ancora oggi, in molti ambienti sanitari, la depressione viene vista come debolezza, esagerazione, scarsa volontà. Il paziente che piange troppo, che si isola, che non collabora, che rifiuta il cibo o i farmaci, viene spesso bollato come “difficile”, “manipolativo”, “lamentoso”. Si perde di vista la sofferenza autentica. Non si riconosce che, dietro quei comportamenti, c’è spesso un dolore così grande da spegnere ogni desiderio di vivere. E così, invece di aumentare la vigilanza, la si abbassa. Si lascia che il paziente venga etichettato, e abbandonato a una diagnosi senza cura.

Dal punto di vista medico-legale, la mancata gestione del rischio suicidario è una delle responsabilità più gravi e complesse. Anche se il suicidio è un atto volontario, il sistema sanitario ha il dovere di riconoscere e prevenire il rischio, quando questo è evidente o ragionevolmente prevedibile. Se il paziente ha manifestato segnali, se ha fatto richieste d’aiuto, se era in fase acuta, e se nulla è stato fatto – né una consulenza psichiatrica, né una presa in carico, né una sorveglianza attiva – la responsabilità della struttura può essere accertata. I tribunali, sempre più spesso, condannano l’assenza di prevenzione, la superficialità nella valutazione, la negligenza nel follow-up. Perché il suicidio, in certi casi, non è solo una tragedia. È un fallimento istituzionale.

In conclusione, il rischio suicidario non è un pensiero lontano, raro, imprevedibile. È una realtà clinica quotidiana. Ogni medico, ogni infermiere, ogni operatore sanitario deve saperlo riconoscere, affrontare, gestire. Non serve essere psichiatri per chiedere a un paziente se ha pensato di morire. Serve coraggio, sensibilità, tempo. Serve empatia, ma anche organizzazione. Servono protocolli, numeri utili, reti assistenziali attive. Serve che ogni persona in crisi venga trattata come una priorità, non come un disturbo. Perché quando un paziente pensa al suicidio, è come se fosse sospeso su un filo. E ogni parola, ogni gesto, ogni attenzione può essere la mano che lo riporta indietro. O la negligenza che lo lascia cadere.

Quando si configura la responsabilità medica per mancata gestione del rischio suicidario in pazienti con sintomi depressivi acuti?

Il rischio suicidario rappresenta uno degli aspetti più delicati, complessi e pericolosi della gestione clinica dei pazienti affetti da disturbi dell’umore, in particolare nei casi di depressione maggiore in fase acuta. La responsabilità medica per mancata gestione del rischio suicidario si configura ogniqualvolta un soggetto esprime, manifesta o lascia intendere un’intenzione autolesiva, e tali segnali non vengono intercettati, valutati o gestiti in modo appropriato secondo le linee guida e le buone pratiche cliniche.

Il suicidio non è mai un evento totalmente imprevedibile. Esistono campanelli d’allarme ben riconosciuti, indicatori comportamentali, espressioni verbali o non verbali, modificazioni improvvise dello stato psichico che devono indurre l’operatore sanitario – medico, psicologo, infermiere – ad attivare immediatamente protocolli di valutazione del rischio. Le frasi allusive come “non ce la faccio più”, “sarebbe meglio se sparissi”, “vorrei dormire per sempre”, i cambiamenti improvvisi nell’umore (come un’apparente serenità dopo giorni di angoscia), il ritiro sociale, l’interruzione delle cure, l’insonnia refrattaria, sono tutti segnali che vanno presi estremamente sul serio.

L’errore più grave è la sottovalutazione del sintomo depressivo. Il paziente con depressione acuta può apparire lucido, orientato, anche ironico o collaborativo. Ma sotto una parvenza di equilibrio può celarsi un rischio elevato, che deve essere sondato con strumenti clinici strutturati. La valutazione del rischio suicidario non può essere lasciata all’intuito del singolo operatore: deve essere sistematica, documentata, e condotta con strumenti validati.

Tra i principali si annoverano la Columbia-Suicide Severity Rating Scale (C-SSRS), il SAD PERSONS Scale, oppure checklist basate sui criteri DSM-5. Tali strumenti aiutano a quantificare la pericolosità, l’urgenza e la necessità di misure protettive, che vanno dalla semplice osservazione clinica fino al ricovero in ambiente protetto. Quando il rischio viene identificato, il medico ha il dovere di informare la famiglia (se compatibile con il consenso), attivare una valutazione psichiatrica urgente e prevedere la sorveglianza, anche fisica, del paziente.

La responsabilità si configura anche per omissione di vigilanza in reparti non psichiatrici. Sempre più frequentemente, pazienti con sintomi depressivi vengono ricoverati in medicina generale, geriatria, oncologia, ortopedia o terapia intensiva per patologie organiche concomitanti. Il fatto che il paziente sia ricoverato per un’altra malattia non esonera l’équipe dal dovere di protezione rispetto al rischio autolesivo. Le barriere architettoniche, l’accesso a oggetti pericolosi, la collocazione in stanze isolate o la possibilità di allontanarsi senza controllo sono tutti elementi che devono essere valutati con attenzione.

Anche il pronto soccorso è un punto critico. Pazienti con crisi depressive acute, stati ansiosi gravi, tentativi autolesionistici recenti o accessi per abuso di sostanze spesso vengono dimessi con diagnosi frettolose come “disturbo del comportamento”, “agitazione psicomotoria”, “crisi d’ansia” senza un’adeguata valutazione psichiatrica. La dimissione di un paziente suicidario senza valutazione specialistica e senza una presa in carico concreta rappresenta una delle più gravi omissioni assistenziali.

Il consenso del paziente al ricovero, nei casi di rischio suicidario elevato, può essere superato tramite il TSO (trattamento sanitario obbligatorio). La legge italiana consente, in presenza di tre condizioni – stato di necessità, rifiuto delle cure, e impossibilità di alternative extraospedaliere – il ricovero coatto in ambiente psichiatrico.

Quali sono le normative applicabili?

  • Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017) sulla sicurezza delle cure e responsabilità sanitaria;
  • Art. 2043 c.c., per fatto illecito e danno ingiusto;
  • Art. 2236 c.c., responsabilità per omissione grave del professionista;
  • Art. 589 e 590 c.p., lesioni o omicidio colposo per negligenza;
  • Linee guida nazionali sulla prevenzione del suicidio (ISS, Ministero della Salute, aggiornamento 2025).

Quali risarcimenti sono stati riconosciuti in Italia?

  • Suicidio in reparto psichiatrico nonostante precedenti tentativi autolesivi: risarcimento di 2.200.000 euro agli eredi;
  • Paziente dimesso con sintomi gravi, morto suicida 48 ore dopo: risarcimento di 1.850.000 euro;
  • Ricovero in struttura protetta con omissioni di sorveglianza e suicidio: risarcimento di 2.000.000 euro.

A chi rivolgersi per ottenere giustizia?

In caso di suicidio o tentativo di suicidio evitabile, è fondamentale rivolgersi a avvocati con competenze specialistiche in responsabilità psichiatrica e gestione del rischio clinico. Una difesa efficace prevede:

  • Analisi della documentazione sanitaria e psichiatrica;
  • Collaborazione con psichiatri forensi, medici legali ed esperti in gestione del rischio;
  • Ricostruzione delle omissioni nella presa in carico e nella sorveglianza;
  • Dimostrazione del nesso tra condotta sanitaria e evento tragico;
  • Azione risarcitoria completa in sede civile e penale.

Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità operano in sinergia con psichiatri legali, esperti in contenzione, servizi territoriali e medicina legale, offrendo una difesa rigorosa, multidisciplinare e centrata sulla protezione del diritto alla salute mentale.

Il suicidio può essere prevenuto quando si ascolta il dolore del paziente. Quando ciò non accade e si verifica un evento tragico, la legge tutela chi è stato abbandonato nel momento più fragile.

Qui di seguito tutti i riferimenti del nostro Studio Legale specializzato in risarcimento danni da errori medici:

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