Le infezioni batteriche contratte in ambito ospedaliero, note anche come infezioni nosocomiali, rappresentano una delle principali cause di complicanze post-operatorie, ricoveri prolungati e mortalità evitabile. Si tratta di infezioni che insorgono durante il soggiorno in ospedale o dopo una procedura medica, e che non erano presenti né in incubazione al momento del ricovero. I batteri coinvolti sono spesso resistenti agli antibiotici e difficili da trattare, come lo Staphylococcus aureus (MRSA), la Klebsiella pneumoniae, la Pseudomonas aeruginosa e l’Escherichia coli.
La presenza di un’infezione nosocomiale è spesso indice di una carenza nelle misure di igiene, di sterilizzazione, di gestione del rischio clinico o di mancato rispetto dei protocolli di prevenzione. Quando il paziente contrae un’infezione evitabile per negligenza del personale sanitario o della struttura ospedaliera, si configura una responsabilità sanitaria che può essere perseguita legalmente.

Il risarcimento per infezioni batteriche ospedaliere può coprire danni biologici, morali, patrimoniali ed esistenziali, oltre alle spese per cure successive, ricoveri prolungati, farmaci specialistici e riabilitazione. I casi più gravi includono setticemie, amputazioni, infezioni della ferita chirurgica, infezioni urinarie catetere-correlate, polmoniti da ventilazione meccanica e meningiti post-operatorie.
In questo articolo analizzeremo le cause più frequenti di infezioni ospedaliere, le responsabilità mediche, le normative di riferimento fino al 2025, gli esempi concreti di risarcimenti ottenuti e le competenze degli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità, esperti in contenziosi da infezioni cliniche.
Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.
Quali sono le infezioni batteriche più comuni in ospedale?
- Infezioni del sito chirurgico;
- Infezioni urinarie da catetere;
- Polmoniti associate a ventilazione meccanica;
- Sepsi e setticemia;
- Infezioni da Clostridium difficile;
- Meningiti post-operatorie;
- Infezioni ematiche da accessi venosi.
Quali sono le cause più frequenti di errore nella diagnosi di infezioni batteriche
Le infezioni batteriche rappresentano una delle cause più comuni di accesso ai servizi sanitari, dalle cure primarie al pronto soccorso, fino ai reparti ospedalieri. Nonostante la loro apparente frequenza e riconoscibilità, gli errori nella diagnosi di un’infezione batterica restano oggi tra i più diffusi, sottostimati e pericolosi della medicina clinica. Il paradosso è che proprio per la loro diffusione e per la consuetudine con cui vengono affrontate, le infezioni finiscono spesso per essere trattate in modo routinario, superficiale, senza l’attenzione dovuta alla complessità del quadro clinico. Le conseguenze di una diagnosi sbagliata o ritardata, però, possono essere devastanti: infezioni non trattate, setticemia, danni d’organo irreversibili, resistenze antibiotiche, decessi evitabili.
Una delle cause più frequenti di errore è legata all’aspecificità dei sintomi iniziali. Una febbre, un malessere generale, una stanchezza improvvisa, una tosse o un dolore localizzato possono rappresentare il primo segnale di un’infezione in atto, ma anche di una condizione virale, infiammatoria, autoimmune o addirittura neoplastica. L’infezione batterica, a differenza di quanto si possa pensare, non ha quasi mai un quadro clinico “tipico” e universale. In molti casi, soprattutto nei pazienti anziani, fragili o immunocompromessi, i sintomi sono sfumati, silenziosi, addirittura assenti. Un’infezione delle vie urinarie può presentarsi con confusione mentale; una polmonite batterica può non dare tosse o febbre nei pazienti molto anziani; una meningite può esordire solo con mal di testa e nausea. In assenza di una valutazione attenta, il rischio di non riconoscere l’infezione è altissimo.
L’anamnesi imprecisa o incompleta è un altro pilastro dell’errore diagnostico. Quando il medico non indaga con attenzione sul decorso dei sintomi, sull’eventuale uso recente di antibiotici, su precedenti infezioni, viaggi, contatti con ambienti a rischio, o patologie croniche predisponenti, la possibilità di giungere a una diagnosi corretta si riduce drasticamente. In ambito ambulatoriale o nei pronto soccorso affollati, il tempo dedicato all’anamnesi si accorcia, e si tende a procedere con diagnosi presuntive. Se il paziente ha febbre e tosse, si parla di influenza. Se ha bruciore urinario, si ipotizza una cistite. Se ha dolore addominale, si pensa a una gastroenterite. Ma in molti casi, la vera infezione si trova altrove: una pielonefrite silente, una batteriemia in corso, un’endocardite nascosta dietro sintomi vaghi. Il medico che non pone le domande giuste, difficilmente troverà le risposte corrette.
L’uso scorretto degli esami di laboratorio è un’altra fonte significativa di errore. Troppo spesso si ordinano esami in modo meccanico, senza sapere cosa cercare davvero. Un emocromo alterato, con leucocitosi e neutrofilia, può far pensare a un’infezione batterica, ma può anche essere il segno di uno scompenso acuto, di una neoplasia, di una reazione infiammatoria aspecifica. La PCR elevata e la procalcitonina non sono marcatori infallibili: possono essere alte anche in condizioni non infettive o normali nelle fasi iniziali di un’infezione grave. L’errore non è solo nell’interpretazione, ma anche nella scelta stessa degli esami. In molti casi, non si eseguono emocolture prima di iniziare una terapia antibiotica, compromettendo la possibilità di identificare il germe responsabile. In altri, si inizia una terapia empirica senza attendere i risultati colturali, rendendo più difficile la diagnosi differenziale. L’approccio diagnostico all’infezione dovrebbe essere ragionato, progressivo e supportato da dati oggettivi, ma nella pratica, troppo spesso è improvvisato e incoerente.
Un’altra causa ricorrente è la mancata considerazione delle infezioni rare o atipiche. In un mondo sempre più globalizzato, è frequente che si presentino casi di tubercolosi extrapolmonare, brucellosi, infezioni da germi multiresistenti, endocarditi batteriche subacute, infezioni micotiche sistemiche o zoonosi batteriche poco note. Se il medico non ha una formazione aggiornata o non considera il contesto epidemiologico del paziente, questi casi possono sfuggire completamente al sospetto clinico. Una febbre persistente con anemia e dimagrimento può non essere solo una patologia cronica intestinale: potrebbe essere un’infezione da Bartonella. Un versamento pleurico potrebbe nascondere una TBC. Una lombalgia con febbricola potrebbe essere una spondilodiscite infettiva. Ma se l’infezione non è contemplata tra le ipotesi, non verranno richiesti né imaging né esami mirati. E il tempo diagnostico continuerà a scorrere.
Nel contesto ospedaliero, l’errore più comune è la mancata identificazione delle infezioni nosocomiali, cioè contratte durante la degenza. Un paziente operato che sviluppa febbre a distanza di 48-72 ore, un paziente con catetere venoso che presenta brividi e alterazioni ematochimiche, un paziente intubato con secrezioni toraciche purulente: tutti questi sono segnali d’allarme che, se ignorati, possono condurre a sepsi e shock settico. Eppure, anche qui, gli errori sono numerosi. In molti casi non si rispettano i protocolli di sorveglianza, non si raccolgono tempestivamente le colture, non si esegue un’indagine strumentale adeguata. Le infezioni da germi multiresistenti, come Klebsiella, Pseudomonas, Acinetobacter, MRSA, richiedono un approccio specifico, che deve partire da una diagnosi precoce. Ritardare la diagnosi significa somministrare antibiotici inefficaci, favorire la proliferazione del batterio, e aumentare la mortalità.
Nei bambini, l’errore diagnostico si lega spesso alla difficoltà di comunicazione e alla variabilità dei sintomi. I neonati e i lattanti possono avere infezioni batteriche gravi con manifestazioni minime: un pianto inconsolabile, una difficoltà nell’alimentazione, un’irritabilità inspiegabile. Se il pediatra non sospetta una batteriemia, una meningite o una polmonite silente, può non attivare il percorso diagnostico corretto. In alcuni casi, viene trattata una febbre come virale, senza valutare la necessità di indagini più approfondite. Anche nei bambini più grandi, le infezioni batteriche profonde – come ascessi addominali, osteomieliti o polmoniti atipiche – possono essere confuse con forme virali. Questo porta spesso a un uso indiscriminato o, paradossalmente, a un ritardo nell’uso degli antibiotici. La valutazione pediatrica dell’infezione richiede esperienza, tempo e una grande attenzione ai dettagli.
Altro aspetto critico è la mancata considerazione dell’antibiotico-resistenza, che oggi rappresenta una delle principali emergenze sanitarie mondiali. Se si prescrive un antibiotico empirico basandosi solo su abitudini consolidate o su linee guida generiche, senza valutare l’epidemiologia locale, si rischia di trattare l’infezione con un farmaco inefficace. Questo non solo peggiora la prognosi, ma favorisce la selezione di ceppi resistenti. Nei pazienti con infezioni ricorrenti, provenienti da RSA, con uso recente di antibiotici o con patologie croniche multiple, il rischio di germi resistenti è alto. Ignorarlo significa curare alla cieca, e curare alla cieca spesso significa non curare affatto.
Sul piano medico-legale, la mancata diagnosi di un’infezione batterica è tra le più difficili da difendere. Questo perché nella maggior parte dei casi si tratta di eventi evitabili, legati a omissioni, a ritardi ingiustificati, a mancata richiesta di esami basilari o a un’errata interpretazione dei dati clinici. I casi di sepsi non diagnosticata, di meningiti trattate come mal di testa, di endocarditi non riconosciute per settimane, di infezioni urinarie evolute in setticemia, sono tristemente noti nella giurisprudenza. E i risarcimenti sono elevatissimi, perché la vita del paziente è spesso compromessa in modo irreversibile.
In conclusione, gli errori nella diagnosi delle infezioni batteriche non sono legati alla complessità della patologia, ma alla superficialità dell’approccio. Mancanza di sospetto clinico, uso improprio degli strumenti diagnostici, scarsa conoscenza delle presentazioni atipiche, tempi lunghi di attesa per esami e consulenze, errata interpretazione dei segni vitali: sono tutti elementi che trasformano una condizione curabile in una condizione potenzialmente letale. La soluzione esiste, ed è nelle mani della formazione continua, dei protocolli diagnostici aggiornati, del lavoro di squadra tra specialisti e della capacità di ascoltare davvero il paziente. Perché un’infezione non trattata in tempo non è solo una diagnosi mancata: è una vita persa, che si poteva salvare.
Quando si configura la responsabilità medica per errori nella diagnosi o nel trattamento di infezioni batteriche?
Le infezioni batteriche rappresentano una delle condizioni cliniche più comuni nella pratica medica, ma anche una delle più pericolose quando non vengono riconosciute tempestivamente o trattate in modo corretto. In contesti ospedalieri o ambulatoriali, l’errata gestione di un’infezione può condurre a sepsi, shock settico, insufficienza multiorgano, danni permanenti e morte. Quando il medico non rileva i segni clinici di infezione, sottovaluta la gravità del quadro, ritarda la somministrazione degli antibiotici o sceglie un trattamento inappropriato, si espone a una responsabilità professionale pienamente configurabile.
Uno degli errori più gravi è la mancata diagnosi di un’infezione in atto. Questo avviene spesso quando i sintomi sono inizialmente sfumati o quando vengono attribuiti a patologie meno gravi. Febbre, leucocitosi, tachicardia, alterazione dello stato mentale, dolore localizzato e malessere generale sono segni comuni che possono indicare un’infezione batterica sistemica. Tuttavia, se il medico non attiva un sospetto clinico fondato, se non prescrive esami ematochimici e culturali nei tempi giusti, o se sottostima i parametri vitali alterati, rinuncia a un’opportunità diagnostica fondamentale.
Il ritardo nella somministrazione degli antibiotici è uno degli elementi più frequentemente contestati in sede giudiziaria. Le linee guida internazionali — come quelle della Surviving Sepsis Campaign — sottolineano che in caso di sepsi sospetta, l’antibiotico ad ampio spettro va somministrato entro un’ora dalla diagnosi clinica. Superato questo limite, il rischio di mortalità aumenta di circa il 7% per ogni ora di ritardo. Se il medico attende l’esito degli esami colturali prima di iniziare la terapia, o se non attiva la somministrazione per motivi organizzativi, commette un errore clinico che può tradursi in una perdita di chance terapeutica.
Anche la scelta dell’antibiotico gioca un ruolo cruciale. In base alla sede dell’infezione, alla gravità del quadro clinico, alla storia del paziente e alla probabilità di germi resistenti, il medico deve selezionare una molecola o una combinazione efficace, tenendo conto delle linee guida e delle indicazioni locali di antibiotico-resistenza. La somministrazione di un antibiotico inefficace, non indicato o non a spettro sufficientemente ampio nei pazienti critici è un errore terapeutico rilevante, soprattutto se ritarda il trattamento corretto.
La responsabilità si configura anche quando vi è una mancata rivalutazione del paziente. Un’infezione può evolvere rapidamente: la febbre può peggiorare, la pressione può calare, la diuresi ridursi, la coscienza alterarsi. Se il clinico non monitora attentamente il paziente infetto, non aggiorna la terapia, non ripete gli esami o non valuta la necessità di ricovero in area critica, omette un atto dovuto di sorveglianza attiva.
L’errore può derivare anche dalla mancata attivazione di consulenze specialistiche. In presenza di setticemia, osteomielite, endocardite, meningite o infezioni complicate, il coinvolgimento dell’infettivologo, del microbiologo o del chirurgo è spesso essenziale. Se il medico gestisce da solo una condizione complessa senza coinvolgere le competenze necessarie, soprattutto in contesti ospedalieri, si assume una responsabilità diretta.
L’infezione post-operatoria è un altro ambito ad alto rischio. Quando un paziente sviluppa febbre dopo un intervento, il medico deve valutare la possibilità di infezione della ferita, ascessi, infezioni del sito chirurgico profondo o sepsi secondaria. La mancata ispezione della ferita, l’omissione di esami ematochimici o radiologici, il ritardo nel drenaggio chirurgico o nella rimozione del materiale infetto possono aggravare rapidamente il quadro clinico. In questi casi, la responsabilità può essere condivisa tra chirurgo, anestesista e medico di reparto.
Le infezioni nosocomiali pongono anche un profilo di responsabilità organizzativa. Se un paziente sviluppa un’infezione da germi multiresistenti in ospedale, la struttura ha il dovere di dimostrare di aver adottato tutte le misure di prevenzione: igiene delle mani, isolamento dei casi, corretta gestione dei dispositivi, protocolli di antibioticoterapia. In caso contrario, il danno è attribuito anche a una carenza sistemica e non solo al singolo professionista.
Il consenso informato e la comunicazione con il paziente sono fondamentali. Quando un medico prescrive una terapia antibiotica, deve informare il paziente della necessità di completare il ciclo, degli effetti collaterali attesi e dei rischi legati a un’interruzione precoce. Se l’infezione recidiva o si complica per scarsa aderenza e non vi è prova che il paziente sia stato correttamente istruito, si può ipotizzare una responsabilità anche su questo fronte.
La documentazione clinica è lo strumento principale per la valutazione della condotta medica. Deve riportare l’anamnesi infettiva, i parametri vitali, la prescrizione degli esami, la data e l’ora della diagnosi, la scelta dell’antibiotico, la sua somministrazione effettiva, le rivalutazioni effettuate, l’evoluzione del quadro clinico e gli eventuali consulti richiesti. Se uno di questi elementi manca, o se non è congruo con il decorso, la condotta del medico può essere ritenuta negligente.
La giurisprudenza italiana ha affrontato numerosi casi in cui la responsabilità è stata riconosciuta per errori nella gestione di infezioni batteriche. Alcuni esempi ricorrenti includono: decessi per sepsi in pazienti dimessi troppo precocemente, complicanze neurologiche da meningiti trattate in ritardo, amputazioni da infezioni non riconosciute in diabetici, insufficienze respiratorie da polmoniti sottovalutate. In molti casi, il principio giuridico richiamato è quello della colpa per omissione, ovvero la mancata attuazione di una condotta clinica obbligatoria in presenza di segnali chiari.
La responsabilità medica si fonda sui classici tre elementi: condotta colposa, nesso causale e danno evitabile. La colpa si manifesta sotto forma di negligenza (mancato approfondimento), imprudenza (attesa ingiustificata), imperizia (scelta terapeutica errata). Il nesso causale viene valutato sulla base della probabilità che, con una condotta corretta, il decorso sarebbe stato migliore. Il danno, infine, deve essere concreto e dimostrabile: peggioramento, lesione permanente, invalidità o morte.
La prevenzione dell’errore passa attraverso una diagnosi precoce, una terapia empirica mirata, l’attivazione tempestiva di specialisti e una stretta sorveglianza del paziente. È essenziale che i protocolli aziendali per la gestione delle infezioni siano noti e seguiti da tutto il personale, e che ogni medico conosca i fattori di rischio per l’evoluzione settica e i tempi di somministrazione degli antibiotici.
In conclusione, la responsabilità medica per errori nella gestione di infezioni batteriche si configura quando il clinico non riconosce tempestivamente i segni di infezione, non agisce con prontezza, non sceglie la terapia adeguata o non monitora correttamente l’evoluzione clinica. È una colpa che può sembrare piccola nei primi momenti, ma che si amplifica con ogni ora persa, ogni antibiotico sbagliato, ogni febbre non ascoltata.
Ogni infezione è un allarme. Ogni ritardo è un’occasione perduta. Ogni sepsi non trattata in tempo è una possibilità negata alla vita. E la medicina, nella lotta contro i batteri, non può permettersi di essere più lenta del danno che avanza. Perché in questi casi, il tempo è già terapia. E la responsabilità nasce da ogni attimo in cui si poteva agire — ma non lo si è fatto.
Quali norme regolano il risarcimento per infezioni ospedaliere?
- Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017);
- Art. 2043 c.c., per danno ingiusto;
- Art. 2236 c.c., in caso di colpa grave;
- Art. 589 e 590 c.p., per lesioni o morte causate da colpa sanitaria.
Quali risarcimenti sono stati riconosciuti?
- Paziente operato al femore con infezione della ferita e amputazione successiva: risarcimento di 1.250.000 euro;
- Infezione da MRSA dopo impianto di protesi ortopedica: risarcimento di 1.100.000 euro per danno permanente;
- Sepsi post-parto per contaminazione del catetere urinario: risarcimento di 980.000 euro.
A chi rivolgersi per ottenere giustizia?
Le infezioni ospedaliere richiedono un’azione legale precisa e documentata. È essenziale affidarsi a avvocati con competenza specifica nei danni da infezioni cliniche, in grado di:
- Analizzare la documentazione sanitaria e la tracciabilità dei protocolli usati;
- Richiedere perizie medico-legali specialistiche in malattie infettive;
- Dimostrare il nesso causale tra la condotta sanitaria e l’infezione;
- Avviare l’azione legale contro la struttura sanitaria o la compagnia assicurativa;
- Gestire trattative e processi per ottenere un risarcimento pieno e proporzionato.
Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità collaborano con infettivologi, microbiologi, chirurghi, epidemiologi e medici legali, per offrire una difesa tecnica, strutturata e orientata alla verità e alla riparazione del danno subito dal paziente.
Le infezioni ospedaliere non sono un rischio inevitabile: quando sono causate da negligenza, devono essere risarcite con equità e precisione. Difendere il diritto alla salute significa anche prevenire errori futuri e tutelare chi ha già pagato un prezzo troppo alto.
Qui di seguito tutti i riferimenti del nostro Studio Legale specializzato in risarcimento danni da errori medici: