Lo scompenso cardiaco è una condizione cronica e progressiva in cui il cuore non è più in grado di pompare sangue a sufficienza per soddisfare le esigenze dell’organismo. I sintomi sono noti: affaticamento, dispnea (fiato corto), edemi agli arti inferiori, aumento di peso improvviso, difficoltà respiratoria notturna.
La diagnosi e la gestione tempestiva dello scompenso sono fondamentali per migliorare la qualità della vita del paziente, prevenire ospedalizzazioni e ridurre il rischio di morte improvvisa. Tuttavia, capita spesso che lo scompenso venga sottovalutato o scambiato per disturbi meno gravi (come ansia, bronchite, obesità, reflusso), ritardando gli accertamenti e le terapie appropriate.

In questi casi, se la condotta medica si dimostra negligente, imprudente o imperita, il paziente – o i suoi familiari – hanno diritto a un risarcimento per danno da malasanità.
Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.
Quali sono le cause più comuni della sottovalutazione dello scompenso cardiaco da parte di un medico?
Lo scompenso cardiaco è una sindrome clinica complessa, caratterizzata dall’incapacità del cuore di pompare sangue a sufficienza per soddisfare le esigenze metaboliche dell’organismo. Si tratta di una condizione ad alta prevalenza, soprattutto nella popolazione anziana, e con un notevole impatto sulla mortalità, la qualità della vita e i costi sanitari. Nonostante la sua frequenza, lo scompenso cardiaco è spesso sottovalutato o non diagnosticato correttamente nella pratica clinica quotidiana, soprattutto nelle sue fasi iniziali o nei casi atipici. Le cause di questo fenomeno sono numerose e vanno ricercate nella natura sfumata della presentazione clinica, nella scarsa sensibilità di alcuni strumenti diagnostici, in errori di interpretazione, nella frammentazione dell’assistenza e in una certa tendenza alla normalizzazione dei sintomi nei pazienti anziani o con comorbidità.
Una delle cause principali è la presentazione clinica poco specifica, soprattutto nelle fasi iniziali dello scompenso. Sintomi come affaticamento, dispnea da sforzo, edemi declivi, incremento ponderale o senso di pienezza addominale possono essere attribuiti a molte altre condizioni, dall’anemia alla BPCO, dal diabete alla malnutrizione. In particolare nei pazienti anziani, questi segni vengono spesso considerati parte del naturale processo di invecchiamento o del quadro multisistemico generale. Se non si attiva un sospetto diagnostico mirato, il cuore come causa primaria del disturbo rimane sullo sfondo.
L’abitudine clinica a gestire i sintomi singolarmente anziché come parte di un quadro sindromico integrato contribuisce alla sottovalutazione. La dispnea viene trattata con broncodilatatori, l’edema con diuretici per via empirica, la stanchezza con integratori. Ma se non si valuta la funzione cardiaca in modo sistematico, il medico si limita a spegnere sintomi senza mai scoprire la patologia sottostante. Questa “frammentazione sintomatica” è uno dei principali ostacoli alla diagnosi precoce dello scompenso.
Anche l’assenza o la ritardata esecuzione dell’ecocardiogramma è una causa rilevante. L’ecocardiografia è lo strumento cardine per valutare la frazione di eiezione, la morfologia valvolare, le pressioni intracardiache e le dimensioni delle camere. Tuttavia, molti pazienti con sintomi compatibili non vengono inviati a eseguire un’ecografia cardiaca, oppure l’esame viene richiesto solo quando il quadro clinico è conclamato. In presenza di una radiografia toracica negativa o di un ECG non alterato, il medico può escludere prematuramente l’origine cardiaca dei sintomi, ritardando così la diagnosi anche di mesi.
Un’altra causa frequente è l’eccessiva dipendenza dai valori pressori e dalla frequenza cardiaca apparente. Nei pazienti con pressione arteriosa normale o solo lievemente ridotta, lo scompenso viene spesso escluso sulla base del falso presupposto che una funzione di pompa insufficiente debba necessariamente coincidere con ipotensione grave. In realtà, molti pazienti con scompenso sistolico compensato o con scompenso a frazione di eiezione conservata presentano valori emodinamici relativamente stabili, pur in presenza di una compromissione strutturale significativa.
Lo scompenso cardiaco con frazione di eiezione conservata (HFpEF), sempre più comune soprattutto nelle donne, negli anziani e nei soggetti ipertesi o diabetici, è particolarmente insidioso. In questi pazienti, l’ecocardiogramma mostra una frazione di eiezione normale, ma vi è una disfunzione diastolica e una elevata pressione di riempimento ventricolare. Se il medico non è formato per riconoscere questa variante clinica, il cuore può sembrare “normale” all’imaging, e il sospetto di scompenso viene abbandonato. È proprio questo il caso in cui la valutazione dei peptidi natriuretici (BNP o NT-proBNP) può essere risolutiva, ma il test non viene sempre richiesto o interpretato correttamente.
L’interpretazione errata della risposta ai farmaci è un altro meccanismo comune di sottovalutazione. Un paziente con sintomi da scompenso che risponde temporaneamente ai diuretici viene spesso considerato “trattato” e non viene sottoposto ad ulteriori accertamenti. Tuttavia, il miglioramento sintomatico non corrisponde necessariamente alla stabilizzazione della malattia sottostante. Anzi, l’uso prolungato di diuretici senza terapia neuroormonale specifica può mascherare l’evoluzione verso uno scompenso refrattario. La risposta al farmaco, se non accompagnata da una diagnosi e da un follow-up, diventa un’arma a doppio taglio.
La tendenza ad attribuire i segni dello scompenso ad altre comorbidità è un errore frequente, soprattutto in pazienti con patologie croniche multiple. L’edema viene associato a insufficienza venosa cronica, la dispnea alla BPCO, la confusione all’età o all’uso di psicofarmaci. Ma quando i sintomi vengono giustificati uno per uno senza una visione d’insieme, il cuore malato resta invisibile. È in questi casi che la sindrome da scompenso evolve silenziosamente fino alla scompensazione acuta.
Anche il peso dell’inerzia clinica e dei bias cognitivi è significativo. Se un paziente è già seguito per una diagnosi preesistente, come diabete o malattia renale cronica, il medico può cadere nella trappola del “familiarità bias”: si concentra su ciò che conosce, e tende a trascurare l’ipotesi alternativa o aggiuntiva. La progressiva riduzione della tolleranza allo sforzo viene interpretata come decondizionamento fisico o neuropatia diabetica, e non come un peggioramento del compenso emodinamico.
In alcuni casi, la responsabilità della sottovalutazione è sistemica. La frammentazione tra cure ospedaliere e territoriali, l’assenza di team multidisciplinari, il mancato utilizzo di score di rischio e strumenti predittivi, la mancanza di follow-up strutturati dopo un ricovero per scompenso acuto: tutto contribuisce a una gestione episodica e incompleta della malattia. Il paziente esce dal pronto soccorso con la diagnosi di “dispnea da sforzo”, ma senza un piano terapeutico né una rivalutazione cardiologica. Così, lo scompenso resta lì, in attesa di riacutizzarsi.
L’assenza di una cultura della prevenzione e dello screening nelle popolazioni a rischio aggrava ulteriormente il problema. Pazienti con ipertensione, cardiopatia ischemica, diabete, obesità o fibrillazione atriale dovrebbero essere monitorati regolarmente con ecocardiogramma, test ematici e valutazione funzionale. Tuttavia, la scarsità di risorse, la variabilità nella formazione dei medici di medicina generale e la pressione assistenziale riducono l’attenzione alle fasi iniziali dello scompenso. Quando i sintomi diventano evidenti, spesso il danno è già strutturale.
In conclusione, la sottovalutazione dello scompenso cardiaco da parte del medico è un problema clinico e organizzativo che si traduce in diagnosi tardive, trattamenti incompleti e peggioramento della prognosi. È una sindrome che non urla: sussurra. E solo un medico che sa ascoltare, integrare, e anticipare può riconoscerla in tempo.
Ogni dispnea deve essere studiata, ogni edema deve far pensare, ogni affaticamento non deve mai essere dato per scontato. Perché il cuore, quando si stanca, lo dice. Ma non sempre lo fa con forza. Tocca al medico leggerne i segnali prima che si trasformino in silenzi irreversibili.
Quando si configura la responsabilità medica per scompenso cardiaco sottovalutato
La responsabilità medica per scompenso cardiaco sottovalutato si configura quando il medico, pur in presenza di segni clinici evidenti, sintomi riferiti dal paziente o parametri alterati, non riconosce l’aggravarsi del quadro, non attiva gli esami necessari né adegua la terapia, determinando un peggioramento progressivo della funzione cardiaca, una crisi acuta non gestita in tempo o addirittura un evento fatale. Lo scompenso cardiaco non è un’entità clinica improvvisa, ma un percorso che si costruisce lentamente, spesso tra segnali ignorati, visite superficiali e rivalutazioni rimandate. La diagnosi non è difficile: è la vigilanza che spesso manca.
I sintomi più comuni sono dispnea da sforzo, astenia, edemi declivi, ortopnea, aumento ponderale rapido, ridotta tolleranza all’esercizio. In presenza di questi segnali, anche se lievi, è compito del medico escludere che si tratti di una riacutizzazione dello scompenso, soprattutto nei pazienti già noti per cardiopatia, ipertensione, pregresso infarto o valvulopatie. Quando invece tali sintomi vengono attribuiti a età avanzata, ansia o generica stanchezza senza alcun esame obiettivo o laboratoristico, la sottovalutazione assume i contorni della colpa medica.
Uno degli errori più frequenti è la mancata esecuzione o interpretazione dell’ecocardiogramma, dell’elettrocardiogramma e del dosaggio del peptide natriuretico (BNP o NT-proBNP), che sono strumenti fondamentali per riconoscere anche le forme lievi o a frazione d’eiezione conservata. Se un paziente presenta dispnea ingravescente e non viene valutato con questi esami, o se gli esami mostrano dati patologici ma nessuno li prende in considerazione, il ritardo diagnostico si trasforma in rischio clinico concreto.
Nel contesto del medico di medicina generale, la responsabilità si aggrava se il paziente segnala un aumento della stanchezza, gonfiore agli arti inferiori, risvegli notturni per fame d’aria o improvvisa necessità di dormire seduto, e viene trattato con integratori, ansiolitici o senza alcun cambiamento terapeutico. Questi segni sono classici della congestione cardiaca, e devono attivare una rivalutazione completa, possibilmente specialistica. Trattare lo scompenso come se fosse un semplice “affaticamento da caldo” è un errore che può costare una crisi acuta nel giro di poche ore.
Nei pronto soccorso, la situazione non è diversa. I pazienti arrivano con difficoltà respiratoria, crepitii polmonari, tachicardia, edemi, e vengono spesso dimessi con diagnosi di bronchite o virosi respiratoria. Anche quando la saturazione è ridotta e il BNP è elevato, si assiste a una gestione superficiale, senza una terapia adeguata né indicazioni chiare per il follow-up. Se poi il paziente torna pochi giorni dopo in arresto respiratorio, la colpa non è dello scompenso, ma di chi non ha riconosciuto la sua evoluzione. Quando il cuore rallenta, la medicina non può permettersi di rallentare con lui.
Anche nei pazienti già noti per insufficienza cardiaca, la responsabilità può emergere quando non si monitora adeguatamente l’evoluzione clinica. Se non si controlla il peso corporeo, la funzionalità renale, la pressione arteriosa o la frequenza cardiaca, e si lascia il paziente gestire in autonomia una malattia così instabile, il peggioramento era prevedibile e prevenibile. È dovere del medico, in questi casi, intensificare la terapia, aggiustare i dosaggi diuretici, rivalutare ACE-inibitori, betabloccanti e antagonisti dell’aldosterone, nonché considerare il supporto domiciliare o l’ospedalizzazione.
Quando un paziente muore o subisce un grave peggioramento per una crisi di scompenso non trattata in tempo, la valutazione medico-legale si concentra sulla prevedibilità del quadro. Se i sintomi erano riferiti da giorni, se erano documentati parametri vitali alterati, se vi erano esami già disponibili che indicavano peggioramento, la responsabilità è evidente e riguarda non solo il singolo professionista, ma anche l’intero sistema di sorveglianza sanitaria.
Le cardiopatie non si fermano mai da sole. Se non vengono controllate, peggiorano. In caso di ricovero, il mancato monitoraggio della diuresi, della funzione respiratoria o della risposta ai farmaci può portare a edema polmonare acuto, insufficienza renale, aritmie o shock cardiogeno. Se la crisi avviene durante il ricovero e nessuno si accorge che il paziente stava peggiorando, l’assenza di sorveglianza si trasforma in abbandono terapeutico. In reparti a medio-bassa intensità di cura, dove il paziente è lasciato per ore senza controlli, gli esiti possono essere irreversibili.
La responsabilità è ancora più netta nei casi in cui il paziente è stato dimesso senza indicazioni precise su dieta, pesi da controllare, farmaci da aggiustare o segnali di allarme. Se non gli è stato detto di cosa soffre e come riconoscere un peggioramento, il problema non è solo terapeutico, ma informativo. Un paziente non istruito è un paziente esposto. E un medico che non informa, è un medico che priva il malato del primo strumento di prevenzione.
Le consulenze tecniche valutano la documentazione clinica, la tempestività degli interventi, la qualità della gestione domiciliare e ospedaliera, il rispetto delle linee guida ESC e ACC/AHA e la coerenza della terapia prescritta con la gravità della condizione. Se emerge che il peggioramento era segnalato da giorni, ma non è stato seguito da alcun adeguamento terapeutico o indicazione al ricovero, la colpa professionale si configura per negligenza, imprudenza o imperizia.
Lo scompenso cardiaco non è una condizione rara né difficile da gestire, ma è una malattia che chiede attenzione costante. Ogni variazione dei sintomi, ogni dato fuori norma, ogni segnale riferito va ascoltato, indagato e gestito con rigore. Quando questo non accade, non è lo scompenso che uccide: è l’indifferenza della medicina che ha smesso di ascoltare il cuore che fatica. E quella disattenzione, se documentata, si chiama responsabilità.
Quando si configura la responsabilità medica?
La responsabilità del medico o della struttura sanitaria si configura quando:
- Non si valuta correttamente la combinazione di sintomi tipici;
- Vengono omessi esami fondamentali per l’inquadramento diagnostico;
- Il paziente viene dimesso dal pronto soccorso senza diagnosi, nonostante segni evidenti di congestione o dispnea;
- Non viene attivato un percorso diagnostico-terapeutico per lo scompenso;
- Non si informa il paziente sul rischio di scompenso evolutivo;
- Si ritarda l’impianto di defibrillatori o pacemaker biventricolari, nei casi gravi.
In presenza di danno biologico permanente, invalidità, perdita di chance di cura o decesso, il paziente – o i familiari – possono chiedere il risarcimento del danno da malasanità.
Quali sono le normative di riferimento?
- Legge Gelli-Bianco (n. 24/2017), sulla responsabilità sanitaria e sicurezza delle cure;
- Art. 2043 Codice Civile, per danno ingiusto da fatto illecito;
- Art. 1218 e 1228 Codice Civile, per responsabilità contrattuale della struttura e dei medici;
- Art. 2236 Codice Civile, per responsabilità in attività tecnicamente complesse;
- Art. 589 e 590 Codice Penale, per omicidio o lesioni personali colpose da errore medico.
Quali sono gli esempi di risarcimento riconosciuto?
- Paziente con edemi agli arti inferiori e dispnea dimesso con diagnosi di “ritenzione idrica da calore”, deceduto per edema polmonare 48 ore dopo: risarcimento di 1.350.000 euro;
- Ritardo di 6 mesi nella diagnosi di scompenso in paziente con frazione di eiezione al 30%: risarcimento di 980.000 euro;
- Mancata terapia con beta-bloccanti e ACE-inibitori, con progressione a insufficienza cardiaca terminale: risarcimento di 1.100.000 euro;
- Paziente anziano ricoverato con affanno notturno, senza ecocardiogramma né terapia adeguata, deceduto per scompenso acuto: risarcimento agli eredi di 1.250.000 euro.
A chi rivolgersi per ottenere un risarcimento?
Se pensi di aver subito un ritardo diagnostico o una gestione errata dello scompenso cardiaco, o se un tuo familiare è deceduto per una crisi cardiaca sottovalutata, puoi:
- Rivolgerti a un avvocato specializzato in responsabilità medica cardiologica;
- Richiedere una perizia medico-legale con supporto di cardiologi esperti in scompenso;
- Analizzare tutta la documentazione: cartelle cliniche, referti, dimissioni, terapie prescritte;
- Dimostrare il nesso causale tra la condotta medica e il danno subito.
Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità operano con cardiologi clinici, medici legali e specialisti in medicina d’urgenza, per garantire una difesa tecnica, completa e orientata al risultato.
Conclusione
Lo scompenso cardiaco non è una condizione da sottovalutare. Quando un medico ignora i segnali o non avvia un trattamento tempestivo, le conseguenze possono essere invalidanti o letali. Ma la legge tutela chi ha subito un danno da negligenza sanitaria.
Se sospetti che tu o un tuo familiare abbiate pagato il prezzo di un errore, non esitare: chiedere giustizia è un tuo diritto.
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