L’infarto miocardico acuto è una delle emergenze sanitarie più note e temute: si verifica quando un coagulo o una placca ostruisce un’arteria coronaria, impedendo il flusso di sangue al muscolo cardiaco. Il tempo è un fattore cruciale. Infatti, le prime 2 ore dall’insorgenza dei sintomi sono fondamentali per salvare il cuore e la vita del paziente. Un trattamento tempestivo (come la trombolisi o l’angioplastica) può evitare danni irreversibili o il decesso.

Quando l’infarto non viene riconosciuto, diagnosticato o trattato nei tempi corretti, per negligenza o errore medico, le conseguenze possono essere gravissime: invalidità permanente, insufficienza cardiaca cronica o morte improvvisa. In questi casi, la legge italiana prevede la possibilità di richiedere un risarcimento per malasanità.
Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.
Quali sono le cause più comuni della mancata diagnosi di infarto?
L’infarto miocardico acuto rappresenta una delle principali emergenze cardiovascolari in medicina moderna. L’identificazione precoce e il trattamento tempestivo — in particolare entro le prime due ore dall’esordio dei sintomi — sono determinanti per ridurre la mortalità, preservare la funzione ventricolare e prevenire complicanze potenzialmente fatali. Tuttavia, nonostante l’ampia diffusione di protocolli diagnostici e terapeutici codificati, la diagnosi di infarto può ancora essere mancata, sottovalutata o posta in ritardo, con conseguente perdita della “golden hour” terapeutica. Le cause di questo fallimento sono complesse, multifattoriali, e spesso intrecciate tra la presentazione clinica del paziente, l’interpretazione dei dati strumentali e le scelte operative del medico.
Una delle principali cause di mancato riconoscimento è la presentazione atipica del dolore toracico, in particolare nei pazienti anziani, diabetici, donne e soggetti con patologie pregresse multiple. Mentre il dolore toracico classico — oppressivo, retrosternale, irradiato al braccio sinistro o alla mandibola, associato a nausea e sudorazione fredda — è ben noto, molti infarti si manifestano con sintomi più vaghi o aspecifici: affaticamento improvviso, dispnea, dolore epigastrico, senso di ansia o malessere generale. In alcuni casi, il dolore è localizzato all’addome superiore e può essere interpretato come gastrite, colica biliare o reflusso gastroesofageo. Nei diabetici, l’infarto può addirittura essere silente, senza dolore, manifestandosi solo con un peggioramento della funzione respiratoria o dello stato mentale.
Il medico che non considera la diagnosi di sindrome coronarica acuta fin dalle prime fasi dell’anamnesi e dell’esame obiettivo rischia di perdere tempo prezioso. Se i sintomi non rientrano nel profilo tipico o se il paziente appare stabile, la tendenza è quella di escludere o rimandare l’ipotesi cardiaca, con conseguente ritardo nell’esecuzione dell’ECG e nei dosaggi enzimatici. Ma l’infarto non avvisa con chiarezza: si insinua spesso nella zona grigia tra ciò che sembra e ciò che è.
Una seconda causa comune è l’errata interpretazione dell’elettrocardiogramma. Sebbene l’ECG sia uno strumento fondamentale e di immediata esecuzione, la sua lettura richiede esperienza e attenzione. Le alterazioni del tratto ST, le onde T iperacute o invertite, i blocchi di branca mascheranti o i quadri elettrici “normali” nelle prime fasi possono sfuggire al medico meno esperto. Inoltre, nei pazienti con ECG basale già anomalo (come nella fibrillazione atriale, nella cardiomiopatia o nei portatori di pacemaker), è ancora più difficile riconoscere segni di ischemia acuta. Se la lettura dell’ECG viene eseguita superficialmente o senza confronto con tracciati precedenti, il rischio di sottovalutare l’infarto cresce.
Il ritardo nel dosaggio dei marcatori di necrosi miocardica (come la troponina) è un altro punto critico. In molti contesti, la troponina viene richiesta solo dopo che l’ECG ha mostrato alterazioni, oppure quando i sintomi persistono. Ma nei casi atipici o nei pazienti “a basso rischio” percepito, il test viene posticipato o del tutto omesso. Inoltre, una prima troponina normale non esclude un infarto in atto, ma questo concetto non è sempre applicato correttamente. La ripetizione a 1 o 3 ore, prevista dalle linee guida, può non essere eseguita, soprattutto se il paziente riferisce un miglioramento spontaneo. Così, l’infarto evolve senza che nessuno lo fermi.
Un altro fattore che ostacola la diagnosi tempestiva è la presenza di comorbidità che mimano o nascondono l’infarto. Un paziente con broncopneumopatia cronica può presentarsi con dispnea acuta e tachicardia: se il medico pensa solo a un’infezione respiratoria, l’infarto non viene sospettato. Nei pazienti oncologici o in quelli già ricoverati per altra causa, i sintomi cardiaci vengono interpretati come effetti collaterali della malattia principale. L’attenzione si concentra su ciò che si conosce, trascurando l’evento nuovo, anche se vitale.
La mancanza di una procedura organizzativa rapida e strutturata può rappresentare una barriera fatale. In alcune realtà, non esistono protocolli precisi per la gestione del dolore toracico. L’attesa per l’ECG, la lentezza nella valutazione del medico, la difficoltà di accesso ai laboratori per i test enzimatici, l’assenza di comunicazione tra infermieri, triagisti e clinici rallentano il percorso diagnostico. Anche quando l’infarto è sospettato, la gestione può bloccarsi per assenza di disponibilità in emodinamica, ritardo nel contatto con il cardiologo, o sottovalutazione della finestra temporale per l’intervento. Ogni minuto perso è miocardio perso.
Un altro elemento decisivo è la fiducia eccessiva nella regressione spontanea dei sintomi. Molti infarti iniziano con un dolore intenso, che poi si attenua: questo può dare l’illusione che il peggio sia passato. Se il medico non conosce il concetto di “infarto abortito” o non comprende che il danno miocardico continua anche in assenza di dolore, può decidere di osservare il paziente senza agire. Ma il cuore non aspetta: la necrosi prosegue anche se il dolore si ferma.
In alcuni casi, il paziente stesso contribuisce al ritardo, presentandosi tardi o raccontando in modo impreciso i sintomi. Tuttavia, è compito del medico saper indagare con domande mirate, cogliere i segnali non detti, leggere il linguaggio del corpo. Un paziente pallido, sudato, con sguardo sofferente e battito accelerato sta comunicando un allarme, anche se non lo verbalizza con chiarezza. Il medico che si fida solo delle parole perde l’occasione di leggere il cuore.
Anche la mancanza di aggiornamento su linee guida e strategie terapeutiche contribuisce al fallimento. Alcuni medici non conoscono più le differenze tra infarto STEMI e NSTEMI, non sanno quali sono le indicazioni alla trombolisi o all’angioplastica primaria, o non valutano correttamente il rischio di reinfarto e morte improvvisa. In altri casi, pur avendo compreso la diagnosi, non vengono attivate le terapie raccomandate: doppia antiaggregazione, anticoagulanti, nitrati, beta-bloccanti. L’inerzia terapeutica può trasformare una diagnosi corretta in un trattamento inutile.
Infine, l’infarto può essere confuso con emergenze non cardiache: embolia polmonare, dissecazione aortica, pancreatite acuta, crisi ipertensiva. Questo è un errore comprensibile, ma non giustificabile. La clinica, l’ECG, i markers e il contesto devono sempre essere valutati insieme. Un paziente con dolore toracico improvviso e rischio cardiovascolare alto deve essere considerato un infartuato fino a prova contraria.
In conclusione, la mancata diagnosi di infarto e l’assenza di trattamento nelle prime ore non sono eventi rari, e dipendono da un insieme di fattori: presentazione atipica, errori di interpretazione, ritardi organizzativi, mancanza di sospetto clinico e carenze gestionali. Ma nella cardiologia d’urgenza, ogni errore si misura in cellule miocardiche perse, in aritmie innescate, in vite accorciate.
Ogni minuto senza diagnosi è un minuto di danno irreversibile. Ogni ECG non eseguito è un’occasione mancata. Ogni dolore sottovalutato è una chance sprecata per salvare un cuore. E quando l’infarto diventa evidente, può essere troppo tardi per invertire la rotta. Nella medicina d’urgenza, il tempo è davvero muscolo. E il medico, il primo soccorritore del cuore, ha pochi minuti per fare la differenza tra la vita e la morte.
Quanto è pericoloso un infarto non trattato entro le prime ore?
Il danno da infarto è progressivo: più si ritarda il trattamento, maggiore sarà la porzione di cuore colpita da necrosi miocardica irreversibile. Le conseguenze di un trattamento tardivo includono:
- Insufficienza cardiaca cronica, con compromissione della qualità della vita;
- Aritmie pericolose, come fibrillazione ventricolare e tachicardia ventricolare;
- Disabilità permanente, con ridotta capacità lavorativa e autonomia;
- Ricoveri ripetuti e necessità di impianto di defibrillatori o pacemaker;
- Morte improvvisa, spesso evitabile con un trattamento tempestivo.
Gli studi internazionali confermano che ogni 30 minuti di ritardo nel trattamento riducono le possibilità di sopravvivenza del 7%.
Quando si configura la responsabilità medica?
La responsabilità medica per infarto non diagnosticato e non trattato entro le prime ore si configura quando il medico, pur in presenza di sintomi, segni clinici, fattori di rischio e alterazioni elettrocardiografiche compatibili, non riconosce tempestivamente il quadro di sindrome coronarica acuta, ritarda gli accertamenti diagnostici necessari o non attiva il percorso terapeutico di emergenza, determinando un danno miocardico irreversibile, complicanze emodinamiche gravi o il decesso del paziente. L’infarto miocardico acuto, in particolare nelle sue forme STEMI, richiede un trattamento entro i primi 90-120 minuti dall’esordio dei sintomi per massimizzare la sopravvivenza. Ogni minuto perso equivale a tessuto miocardico necrotico in più.
La presentazione tipica dell’infarto prevede dolore toracico costrittivo, irradiato al braccio sinistro, collo o mandibola, associato a sudorazione fredda, dispnea, nausea, astenia e senso di morte imminente. Tuttavia, esistono forme atipiche, più frequenti nelle donne, nei diabetici e negli anziani, in cui i sintomi possono essere sfumati: affaticamento, lieve dispnea, vertigini o dolore epigastrico. La sottovalutazione di questi sintomi da parte del medico, in pronto soccorso o in ambulatorio, costituisce un errore clinico rilevante, soprattutto in soggetti con fattori di rischio cardiovascolare evidenti.
L’elettrocardiogramma è il primo esame che deve essere eseguito entro 10 minuti dalla presa in carico di un paziente con sospetto infarto. In presenza di sopraslivellamento del tratto ST in due derivazioni contigue, si impone l’attivazione immediata del percorso di emergenza per l’angioplastica primaria. Anche in assenza di sopraslivellamento (NSTEMI), l’ECG può mostrare segni indiretti (inversione dell’onda T, sottoslivellamenti) che richiedono un intervento rapido e l’esecuzione del dosaggio seriale della troponina. Non effettuare l’ECG, o effettuarlo ma non saperlo interpretare, espone il paziente a un rischio diretto e documentabile.
Uno degli errori più comuni è attribuire il dolore toracico ad ansia, gastrite o affaticamento muscolare, senza eseguire alcun accertamento. In questi casi, il paziente viene dimesso con terapia sintomatica, solo per ritornare ore dopo in condizioni peggiorate o già in arresto cardiaco. Se a posteriori l’ECG evidenzia un infarto in corso, la responsabilità è evidente: il medico ha ignorato una sintomatologia cardine, senza ricorrere ad alcuna indagine oggettiva per escludere l’origine ischemica.
Anche i tempi di esecuzione degli esami giocano un ruolo cruciale. Se la troponina viene richiesta ma il referto è atteso per ore, e nel frattempo il paziente non riceve alcuna terapia o trasferimento, il ritardo diagnostico si trasforma in ritardo terapeutico. Nei centri dotati di emodinamica, l’angioplastica deve essere effettuata il più presto possibile. In quelli non dotati, è obbligatorio il trasferimento rapido secondo i protocolli STEMI. Il mancato avvio della rete per l’infarto o la mancata somministrazione precoce dei farmaci salva-vita (ASA, eparina, nitrati, clopidogrel, ecc.) costituiscono violazioni gravi del dovere di diligenza medica.
Anche l’assenza di rivalutazione clinica è elemento di responsabilità. Se il paziente viene osservato in pronto soccorso per ore con dolori toracici ricorrenti, e il medico non ripete l’ECG o non rivaluta la clinica, ignorando la possibilità di un’evoluzione dinamica dell’infarto, la condotta risulta colposa. Il tracciato può evolvere da un quadro inizialmente normale a uno ischemico nell’arco di minuti. Il medico ha il dovere di monitorare l’evoluzione elettrocardiografica, soprattutto in presenza di sintomi persistenti o ingravescenti.
In ambito ambulatoriale o territoriale, la responsabilità si configura quando il paziente riferisce dolore toracico tipico, e il medico curante non lo invia al pronto soccorso, non chiama il 118 o non consiglia nemmeno un ECG urgente. Il cosiddetto “infarto silenzioso” spesso non è realmente silenzioso, ma semplicemente non ascoltato. Se l’infarto viene diagnosticato solo dopo giorni, o solo in seguito a un ricovero d’urgenza con complicanze, si è perso un tempo prezioso che avrebbe potuto salvare parte del tessuto miocardico e la vita stessa del paziente.
Nei casi in cui il paziente muore improvvisamente dopo essere stato valutato da un medico che non ha sospettato l’infarto, l’autopsia può rivelare la presenza di necrosi miocardica recente e identificare il momento approssimativo dell’occlusione coronarica. In presenza di documentazione clinica assente o contraddittoria, la responsabilità si configura anche per carenza di tracciabilità delle decisioni. In medicina d’urgenza, ciò che non viene scritto, non si presume fatto. E ciò che non viene fatto, ma era doveroso, è colpa professionale.
In ambito medico-legale, la responsabilità per infarto non diagnosticato si valuta secondo il principio della perdita di chance terapeutica. Il paziente non doveva necessariamente guarire: ma una diagnosi più precoce avrebbe potuto offrire concrete possibilità di trattamento efficace, limitare il danno miocardico, evitare lo shock cardiogeno, prevenire aritmie fatali o ridurre l’invalidità residua.
Le consulenze tecniche analizzano la tempistica, i sintomi riportati, gli esami eseguiti, la condotta del medico, l’aderenza ai protocolli STEMI e la possibilità che un trattamento tempestivo avrebbe modificato l’esito. Se si dimostra che un medico mediamente diligente avrebbe potuto porre la diagnosi già alla prima valutazione e attivare il trattamento salvavita, la responsabilità si configura in pieno per negligenza e imperizia.
L’infarto è una corsa contro il tempo. È una condizione dove ogni minuto perso può equivalere a morte cellulare e peggioramento irreversibile della funzionalità cardiaca. Quando il medico perde tempo per superficialità, disattenzione o presunzione, non è solo il cuore del paziente a fermarsi: è l’efficacia della medicina a crollare. E quando il danno è prevedibile, prevenibile e documentabile, la responsabilità è chiara, e non riguarda solo l’errore, ma la mancata possibilità di salvare una vita.
Quali sono le normative di riferimento?
- Legge Gelli-Bianco (Legge n. 24/2017), sulla responsabilità sanitaria e sulla sicurezza delle cure;
- Art. 2043 Codice Civile, per danno ingiusto da fatto illecito;
- Art. 2236 Codice Civile, per responsabilità del professionista sanitario in ambiti tecnici complessi;
- Art. 1218 Codice Civile, per responsabilità contrattuale del medico o della struttura;
- Art. 590 e 589 Codice Penale, per lesioni personali colpose e omicidio colposo da errore medico.
Quali sono gli esempi di risarcimento riconosciuto?
- Paziente con dolore toracico ignorato, deceduto dopo 12 ore in casa per infarto non diagnosticato al PS: risarcimento agli eredi di 1.400.000 euro;
- ECG alterato non riconosciuto da medico di guardia, con arresto cardiaco in reparto: risarcimento di 1.150.000 euro;
- Ritardo di 6 ore nell’invio al laboratorio di emodinamica, con grave disfunzione ventricolare post-infarto: risarcimento di 980.000 euro;
- Infarto in donna di 42 anni trattata per gastrite e ansia, deceduta per aritmia fatale: risarcimento di 1.200.000 euro.
A chi rivolgersi per ottenere un risarcimento?
Se tu – o un tuo familiare – siete stati vittima di un infarto non diagnosticato o trattato in ritardo, è fondamentale:
- Rivolgerti a un avvocato specializzato in malasanità cardiologica, con esperienza in casi urgenti e tempo-dipendenti;
- Richiedere una perizia medico-legale cardiologica, per analizzare tempi, esami effettuati, omissioni o ritardi;
- Raccogliere tutta la documentazione sanitaria: accessi al PS, tracciati ECG, esami ematici, cartelle cliniche;
- Avviare un’azione legale per ottenere il giusto risarcimento per i danni biologici, morali ed economici.
Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità collaborano con cardiologi, rianimatori e medici legali forensi per offrire una difesa tecnica e concreta del paziente o dei familiari.
Conclusione
L’infarto miocardico è una corsa contro il tempo. Un errore di valutazione, un esame non eseguito o una terapia ritardata possono compromettere irreparabilmente la vita di un paziente. Quando ciò accade per colpa di un medico o di un ospedale, la legge tutela chi ha subito il danno.
Non restare nel dubbio: se sospetti una diagnosi mancata o un intervento tardivo, chiedi giustizia. Il tuo cuore – o quello di un tuo caro – meritava attenzione, non negligenza.
Qui di seguito tutti i riferimenti del nostro Studio Legale specializzato in risarcimento danni da errori medici: